Editoriale n. 1 2020

Per una nuova riflessione sulle imprese pubbliche

di Giampaolo Rossi

Appena la recessione economica sarà evidente diventerà di grande attualità il tema dell’intervento dello Stato nell’economia, con i mezzi di cui dispone e, fra questi, le imprese pubbliche. Già se ne intravedono le avvisaglie con il potenziamento della SACE e la statizzazione di Alitalia (si è capito che non è occasionale il fatto che i principali Stati abbiano “compagnie di bandiera”), ma il ricorso alle imprese pubbliche ha costituito un ingrediente essenziale nella concorrenza in atto fra i sistemi statali ed è stato da sempre lo strumento utilizzato dagli Stati nei contesti di crisi. Potrà trattarsi di un ampliamento o anche solo di un rafforzamento delle imprese pubbliche esistenti, per favorire non solo l’occupazione, ma anche le politiche di lungo periodo nelle infrastrutture e nella tutela dell’ambiente.
Il tema va trattato con particolare attenzione a non farsi condizionare da apriorismi culturali e ideologici, come è stato in passato: all’andamento ciclico della presenza del  “pubblico” nell’economia ha corrisposto una analoga fluttuazione degli orientamenti della dottrina: gran parte dei giuristi e degli economisti, fino agli anni ’80, si è formata con scritti sulle “partecipazioni statali”, mentre nei decenni più recenti l’adesione acritica alle trionfanti tesi liberiste, di nuovo assunte, come due secoli prima, come verità assolute, al di fuori del tempo e dello spazio (G.D. Romagnosi), ha eliminato il tema dall’agenda delle riflessioni. Si è ampiamente discusso delle nuove spa ma, salvo rare eccezioni, non si è collegato il dibattito al problema del ruolo dello Stato nell’economia. Sono quindi rimaste in ombra questioni importanti, come quella se le spa che gestiscono imprese pubbliche, e in particolare quelle di servizio pubblico, debbano tendere al massimo utile o se valga ancora il principio dei “criteri di economicità” che caratterizzava gli enti pubblici economici.
Questo atteggiamento non è derivato da una doverosa presa d’atto del diritto positivo (non si può studiare un oggetto inesistente) ma da un ossequio quasi generalizzato alle tendenze di moda che si sono nascoste dietro una interpretazione sbagliata delle fonti europee che, portate all’estremo, cancellavano la possibilità o almeno il senso di una impresa pubblica. Non era questo, però, il diritto positivo, non solo nei Paesi con i quali ci confrontiamo, ma neanche nel nostro, perché in misura non marginale il “pubblico” è stato camuffato con una veste privatistica e ha svolto, e svolge, un ruolo di primo piano nell’economia del Paese: è difficile andare molto oltre l’elenco delle imprese pubbliche (ENI, ENEL, Ferrovie dello Stato, Poste italiane, Leonardo, Fincantieri, Rai) per trovare una grande impresa italiana che funzioni. Sono quel “pubblico-che-funziona”, composto da imprese, apparati tecnici, di servizi, amministrativi, corpi specializzati, come le “Forze dell’ordine” (sarebbe meglio chiamarle Forze della sicurezza), che lavorano bene senza fare clamore, e che abbiamo riscoperto, quasi con meraviglia, in queste settimane di emergenza sanitaria.
Anche la Cassa Depositi e Prestiti ha avuto una veste privata che non corrisponde al suo corpo come definito dalle norme. Vi sono stati inseriti dei privati, a differenza delle formule adottate negli altri Paesi europei, nei quali le Casse sono pubbliche al 100%. Il fatto che siano fuori dal bilancio consolidato dello Stato è una semplice furbizia che non ha trovato obiezioni perché rispondente a un interesse comune a tutti gli Stati.
Per di più l’assetto normativo di quanto è restato delle imprese pubbliche è stato caratterizzato da un atteggiamento di sfavore (v: il mio saggio sui Disaiuti di Stato), e da un orientamento autolesionista dell’Autorità della concorrenza che ha impedito alle imprese pubbliche italiane operazioni che, invece, ha consentito a quelle pubbliche straniere (come l’acquisto della Edison). Quelli che Scagnetti, negli anni ’40 chiamava enti di privilegio sono diventati enti di sfavore. La giurisprudenza, soprattutto quella amministrativa, ha fatto da argine alle implicazioni più sbagliate e ha mantenuto un regime pubblicistico di un certo spessore, con gli oneri e i vantaggi corrispondenti, come la possibilità di affidamenti diretti unita al conseguente vincolo all’evidenza pubblica. Non sono mancati trabordamenti, anche in tema di responsabilità degli amministratori, che non hanno tenuto conto della necessaria elasticità delle attività imprenditoriali. Il regime degli enti pubblici economici dovrebbe fare ancora da modello anche perché i francesi, con la formula del “carattere industriale o commerciale” lo hanno trasmigrato nella normativa europea.
Anche su questi profili mancano ricerche adeguate. Non si è fatta ad esempio una comparazione fra i poteri di direttiva sugli enti economici e i poteri, ben più penetranti, dell’azionista. Il grado di permeabilità alla politica, che fu decisivo nel degrado delle partecipazioni statali, è ora più marcato, e si accompagna alla minore durata dei mandati, con frequente turnover, che rende poco protetta la posizione dei managers pubblici, per di più gravata da responsabilità improprie (v. L. Torchia).
Manca completamente una visione organica dell’assetto degli organismi pubblici che dovrebbero “sovraintendere”(?) alla attività delle imprese pubbliche. Le soluzioni sono di carattere occasionale (v. da ultimo quella sulla SACE che farà capo a due Ministeri) e le misure, anche opportune, di difesa da scalate estere (il golden power) sono adottate con una ingenuità e provvisorietà che non ha ad esempio il sistema francese.
Una ricostruzione del ruolo e dell’assetto delle imprese pubbliche presuppone un clima culturale che sappia rilegittimare il “pubblico”, finalmente inteso come servizio e non come potestà. Un “pubblico” così bistrattato negli ultimi tempi che qualcuno è arrivato perfino a sostenere che andasse eliminato come categoria concettuale e giuridica, mentre altri, per mantenerne i valori sottostanti, hanno pensato di ricorrere a un altro termine (“comune”), senza riuscirne a spiegarne i caratteri.
L’inattualità delle posizioni ultraprivatistiche è ormai evidente e non può che determinare la fine dell’enfatizzazione del privato e il ritorno alla consapevolezza della appartenenza a collettività organizzate, le sole che possono assicurare quei “diritti a protezione necessaria” che formano la tutela della persona umana.
Ma una riproposizione moderna del “pubblico” in generale e delle imprese pubbliche in particolare non può consistere in un mero ritorno al passato, nel sostituire l’enfatizzazione del “pubblico” alla enfatizzazione del privato, o magari nell’esprimere una inattuale propensione alla autosufficienza dello Stato, in un contesto nel quale proprio la crisi sanitaria ha dimostrato l’interdipendenza fra i vari sistemi. Bisogna inquadrarlo nella piena consapevolezza che le nuove tecnologie escludono le eccessive chiusure degli ordinamenti, individuare le necessarie sinergie con il settore privato, contestualizzarlo in un quadro europeo rivisitato. Bisogna capire, d’altro lato, che l’apertura deve convivere con la consapevolezza che gli Stati, per quanto indeboliti, restano ancora gli unici organismi a cui fa capo la responsabilità ultima della tutela della persona e della convivenza civile. Bisogna inoltre far tesoro anche dei difetti che il settore pubblico aveva manifestato: il rischio di trabordamenti della politica; la velleità del carattere provvisorio delle misure (anche l’IRI era nato come provvisorio).
C’è quindi tanto spazio per nuove ricerche sulle quali i giovano possono cimentarsi, con una buona formazione sia economica che giuridica, con un approccio comparato e con uno spessore intertemporale.

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