Editoriale n. 2 2020

Il coraggio di semplificare

di Massimo Occhiena

1. All’indomani delle leggi c.d. “Bassanini uno” (legge 15 marzo 1997, n. 59) e “Bassanini bis” (legge 15 maggio 1997, n. 127), con la consueta, puntuale analisi del dato positivo, Elio Casetta dimostrava quanto fosse difficile qualsiasi riforma che avesse quale obiettivo la semplificazione amministrativa (E. Casetta, La difficoltà di «semplificare», in Dir. ammin., 1998, 335 e ss.). L’annotazione pare perfettamente calzante anche per l’ultimo intervento normativo in chiave semplificatrice, il decreto-legge 16 luglio 2020, n. 76, recante «Misure urgenti per la semplificazione e l’innovazione digitale», convertito con modificazioni dalla legge 11 settembre 2020, n. 120.
Con questa nuova disciplina il Governo è, almeno sul piano dell’enunciazione delle intenzioni, intervenuto per semplificare il profilo funzionale e procedimentale dell’amministrazione in alcuni ambiti di esercizio dei poteri pubblici (contratti pubblici e attività edilizia nel Titolo I; attività di impresa, ambiente e green economy nel Titolo III; amministrazione digitale nel Titolo IV), nonché per prevedere alcune misure semplificatrici, a tal fine modificando alcuni istituti e norme della legge 7 agosto 1990, n. 241 (termine del procedimento, utilizzo dell’informatica e della telematica nell’attività amministrativa, preavviso di diniego, silenzio devolutivo, autocertificazioni, semplificazione nella riadozione di atti endoprocedimentali di procedimenti autorizzatori o di VIA annullati in sede giurisdizionale, conferenza dei servizi) o emendando la regolazione legislativa di particolari settori (procedimenti di competenza dell’Ispettorato nazionale del lavoro; disincentivi nell’introduzione di oneri regolatori nella regolazione dei poteri autorizzatori, concessori, certificatori, o nell’accesso ai servizi pubblici o nella concessione di benefici; agenda della semplificazione amministrativa e moduli standard per la ripresa a seguito dell’emergenza epidemiologica da COVID-19).
Non è questa la sede per indugiare sull’analisi delle singole disposizioni: questa Rivista accoglierà nei prossimi numeri ampie e distese riflessioni al riguardo, in considerazione dell’indubbia importanza soprattutto di alcune tra le novità previste dalla legge. Qui si intende, invece, proporre una valutazione complessiva della disciplina in disamina e, in prospettiva critica, evidenziare specialmente tre aspetti.

2. Così come in pressoché tutti gli interventi di semplificazione amministrativa, cui forse fanno eccezione proprio quelli degli anni 1997-1998 cui in premessa si faceva riferimento, anche nella legge 120/2020 il legislatore ha utilizzato la tecnica delle modifiche puntuali e minuziose di previgenti disposizioni, al più innestando all’interno di più ampi testi normativi articoli o commi in aggiunta a quelli preesistenti. Certo, il carattere episodico ed estemporaneo deriva, nel caso di specie, dal periodo emergenziale cagionato dal virus della SARS-Cov-2, così come d’altronde il Governo ha esplicitato nel preambolo stesso del decreto-legge 76/2020 (espressamente volto a «realizzare un’accelerazione degli investimenti e delle infrastrutture attraverso la semplificazione delle procedure in materia di contratti pubblici e di edilizia, operando senza pregiudizio per i presidi di legalità» e «introdurre misure di semplificazione procedimentale e di sostegno e diffusione dell’amministrazione digitale, nonché interventi di semplificazione in materia di responsabilità del personale delle amministrazioni, nonché di adottare misure di semplificazione in materia di attività imprenditoriale, di ambiente e di green economy, al fine di fronteggiare le ricadute economiche conseguenti all’emergenza epidemiologica da Covid-19»). Cionondimeno, sembra indubbio che la complessità dei procedimenti amministrativi e, dunque, dei rapporti tra cittadini ed enti pubblici non possa più essere affrontata in modo sporadico e frammentato, richiedendo una più ampia e meditata riforma che, soprattutto, sia animata da una visione d’insieme e da una finalità ben precisa. Da questo punto di vista, il presupposto della straordinaria necessità e urgenza ex art. 77, Cost., unitamente alla – quantomeno nella fase di iniziale adozione della normativa in analisi – mancanza di esteso confronto politico denunciano chiaramente che la fonte di produzione del decreto-legge sia ontologicamente inadatta allo scopo. Tanto più quando, come nel caso del decreto-legge 76/2020, il Governo sostanzialmente “impone” al Parlamento il proprio punto di vista in sede di conversione, ponendo cioè la fiducia tanto al Senato quanto alla Camera su un c.d. “maxiemendamento” assai corposo, peraltro dal contenuto disomogeneo rispetto alla decretazione originaria che, non a caso, ha meritato in sede di promulgazione il puntuale e severo richiamo del Presidente della Repubblica a un più sorvegliato esercizio della funzione legislativa.
È talmente necessario porre finalmente mano a una rimeditazione del ruolo dell’amministrazione nel nostro ordinamento, è così improcrastinabile disciplinare diversamente il rapporto autorità-libertà specialmente in relazione all’esercizio delle attività economico-produttive che non può che auspicarsi il definitivo superamento della logica del “taglia e cuci” legislativo. Inserire di tanto in tanto modifiche a leggi e norme vigenti non solo non semplifica, ma anzi complica e rallenta. Ne è esempio preclaro la conferenza di servizi, oggetto di una frenetica e spesso inutile attività emendativa, che ne ha chiaramente minato l’effettività. Se è talmente necessario modificarne di continuo la disciplina, allora sembra palese che l’istituto non funziona: tanto vale, allora, eliminarlo o riformarlo in radice. E invece il legislatore procede da anni a togliere e aggiungere pezzi di disciplina. Oppure, con scelta indubbiamente inedita, decide come avvenuto con l’art. 13 della legge 120/2020, di sostanzialmente sospendere la conferenza dei servizi ordinaria fino al 31 dicembre 2021, facoltizzando fino ad allora le amministrazioni a sostituirla con quella semplificata, nonché di introdurre una sorta di “modificazione a tempo” di parte dell’art. 14-bis, legge 241/1990, prevedendo norme specifiche con validità sempre fissata fino al 31 dicembre 2021. Una novità che non può che generare incertezze e confusioni e che, pertanto, non sembra davvero meritevole di essere salutata con favore.

3. Si diceva della necessità di mettere mano a una vera e propria riforma amministrativa in chiave semplificatrice, atta a ridisegnare sia la relazione tra potere pubblico e autonomia privata, sia il modo d’essere del cittadino al cospetto dei pubblici poteri.
Partendo da quest’ultimo profilo e lasciando il primo, più ampio, alle considerazioni conclusive di queste bervi annotazioni, si manifesta il forte disagio conseguente all’ennesima alterazione dell’assetto originario della legge 241/1990 apportata dalla legge 120/2020. La legge sul procedimento amministrativo è il frutto di un disegno generale dei rapporti cittadino-amministrazione che non può essere oggetto di modifiche parziali e affatto occasionali, perché così ne viene immancabilmente alterata tutta l’architettura d’insieme. Ritoccandola qua e là con interventi correttivi su una parte della stessa o, peggio, su una specifica sua norma o comma, in questi anni il legislatore ha finito, più o meno consapevolmente, con l’incidere sul più completo e consapevole progetto di riforma, anche organizzativa, dell’amministrazione degli ultimi decenni. Modificando la legge 241/1990 mediante integrazioni e innesti frutto di contingenti operazioni normative che avevano di mira ora quello, ora l’altro istituto procedimentale, si sono inevitabilmente trasformati, a cascata, i collegati principi o istituti, così intaccando il quadro unitario dell’originaria disciplina.
Si pensi al caso dell’art. 21-octies, comma 2 (pure introdotto in un contesto di riforma unitaria siccome prevista dalla legge 11 febbraio 2005, n. 15) che, tra gli altri effetti, ha dequotato la tutela del cittadino a fronte dell’attività vincolata, logica affatto assente nella legge 241/1990; travolto il fondamentale istituto della partecipazione procedimentale e le correlate situazioni giuridiche soggettive dei privati; inciso sul principio di motivazione, integrabile ex post – per giunta in giudizio – in frontale contrasto con il chiaro disposto dell’art. 3. Si pensi, ancora, all’art. 18, cui, oggi, proprio l’art. 12 della legge 120/2020 ha inserito il comma 3-bis, a tenore del quale nei procedimenti volti al rilascio di provvedimenti ampliativi le dichiarazioni sostitutive di certificazioni, le dichiarazioni sostitutive dell’atto di notorietà, le acquisizioni e gli accertamenti d’ufficio da parte dell’ente procedente, testualmente, «sostituiscono ogni tipo di documentazione comprovante tutti i requisiti soggettivi ed oggettivi richiesti dalla normativa di riferimento». Ora, posto che, per definizione, le acquisizioni di «documenti attestanti atti, fatti, qualità e stati soggettivi, necessari per l’istruttoria del procedimento» e gli accertamenti effettuati (o condotti sotto la direzione) del responsabile del procedimento sono di per sé pienamente esaustivi delle attività istruttorie dirette all’acclaramento dei requisiti soggettivi e dei presupposti di fatto, la nuova norma avrà quale risvolto che i suddetti due istituti saranno nella prassi operativa utilizzati in modo del tutto marginale, dal momento che gli uffici pubblici si affideranno per lo più alle autocertificazioni dei cittadini istanti. Peccato che, in questo modo, non solo si semplifica scaricando oneri e responsabilità sui privati, gravati dalle conseguenze anche penali per le dichiarazioni non veridiche (il che non necessariamente presuppone una condotta fraudolenta, posto che, specie per le dichiarazioni sostitutive dell’atto di notorietà, ben si può avere una rappresentazione personale dei fatti diversa da quella reale), ma soprattutto si vanifica il significato profondo dell’art. 18, pensato nell’ottica di implementare le verifiche e gli accertamenti d’ufficio quale modus operandi “a regime” nella conduzione delle istruttorie amministrative. Nei primissimi tempi di applicazione della legge 241/1990 le autocertificazioni costituivano il “male minore” e, a fronte dell’assenza di banche dati telematiche e dell’utilizzazione dell’informatica negli enti pubblici, servivano per superare la prassi in allora esistente per cui al cittadino si richiedevano dispendiose attività di raccolta dei certificati necessari al dispiegarsi dell’istruttoria amministrativa. Nell’ottica di una semplificazione che coniughi la deburocratizzazione con il corretto svolgimento delle attività amministrativa non vi può essere dubbio alcuno quanto al fatto che, a distanza di trent’anni dall’entrata in vigore dell’art. 18, le dichiarazioni sostitutive debbano avere un ruolo del tutto marginale a fronte di accertamenti e acquisizioni d’ufficio posti in essere direttamente dai funzionari amministrativi. Il che oggi può/deve avvenire con la massima facilità e sollecitudine: con un semplice “click” del mouse.

4. Dalle osservazioni in ultimo effettuate pare quindi emergere l’urgente necessità che la semplificazione sia, per così dire, “presa sul serio”, progettando in modo articolato un nuovo impianto di interventi normativi che, complessivamente e in modo coordinato, realizzino il duplice obiettivo di accelerare i processi decisionali pubblici e di ridurre gli oneri burocratici che oggi gravano sui privati per lo svolgimento di attività (in specie) nei settori economicamente rilevanti. A tal fine, occorre mettere mano a una certamente complessa, ma affatto indispensabile, operazione di chiarezza che abbia a tema le relazioni tra cittadini e pubbliche amministrazioni. Il che richiede, a parere di chi scrive, uno straordinario sforzo di sintesi che, limitandoci all’ambito economico-imprenditoriale, attività per attività, stabilisca una demarcazione netta tra quelle che possono essere liberamente esercitate in quanto espressione dell’autonomia privata e quelle che possono essere svolte solo previa valutazione da parte di un ente pubblico della loro coerenza con gli interessi pubblici. Tutti gli sforzi di semplificazioni che in questi ultimi decenni sono stati profusi dal legislatore esclusivamente per rendere più efficienti, anche dal punto di vista temporale, le modalità di esercizio dei poteri amministrativi non sembrano potere ottenere risultati apprezzabili se non si opera sul piano della riduzione degli ambiti sottoposti al regime amministrativo e su quello della contrazione degli aggravi procedimentali che rallentano l’azione degli enti pubblici. Ancora volgendoci al recente tentativo di semplificazione amministrativa di cui alla legge 120/20020, due gli esempi cui può utilmente guardarsi.
Il primo è quello degli appalti pubblici. La legge 120/2020 in commento contempla uno specifico capo, il primo del titolo I, dedicato appunto alle «Semplificazioni in materia di contratti pubblici». Numerose e importanti le novità, ma tutte nell’ottica sopra stigmatizzata degli interventi modificativi e integrativi della disciplina vigente in materia, ossia principalmente il decreto legislativo 18 aprile 2016, n. 50. Oltretutto, le misure squisitamente di semplificazione (ad esempio, l’estensione dell’affidamento diretto e della procedura negoziata senza bando ex art. 63 del codice dei contratti) hanno validità solo fino al 31 dicembre 2021, all’esplicitato «fine di far fronte alle ricadute economiche negative a seguito delle misure di contenimento e dell’emergenza sanitaria globale del COVID-19» (artt. 1 e 2 della legge in analisi). Prevedere ulteriori norme, per giunta di durata limitata nel tempo, pare determinare soltanto un ulteriore aggravamento dell’instabilità e disorganicità normativa che contrassegna i pubblici appalti, la cui complessità derivante da un codice composto da 220 articoli e 25 allegati, da decreti attuativi e linee guida ANAC è destinata ad aumentare con il redigendo regolamento unico previsto dall’art. 216, comma 27-octies, del codice.
Nel settore degli appalti la semplificazione richiede, a parere di chi scrive, uno sforzo di semplificazione sub specie di delegificazione, che vada a porre rimedio radicale all’eccesso di regolamentazione che lo caratterizza, abrogando il vigente codice dei contratti pubblici a eccezione delle norme che sanciscono principi vincolanti, prevedendo una snella disciplina procedurale per le acquisizioni in economia di beni, servizi e lavori e, per il resto, lasciando in vigore quale unica disciplina applicabile quella di matrice europea siccome dettata dalle direttive 2014/23/UE, 2014/24/UE e 2014/25/UE del Parlamento europeo e del Consiglio del 26 febbraio 2014. Come si è tentato in altra occasione di annotare (Gli appalti pubblici e la semplificazione impossibile, in questa Rivista, 2013, 521 e ss.), non è possibile semplificare il settore de quo con interventi diretti a compendiare tutti i diversi interessi ed esigenze in gioco (concezione contabilistica, anticorruzione, concorrenza, tutela del lavoro, tutela dell’ambiente, ecc.), perché in questo modo giocoforza occorre prevedere disposizioni che tentino di coordinare elementi ispirati a fini talvolta persino contrastanti, generando così un eccesso di procedimentalizzazione e formalizzazione a detrimento della speditezza e dell’efficienza. La scelta sopra indicata nasce dal presupposto della irrinunciabilità della disciplina europea e dal fatto che la stessa, contrariamente a quella di matrice interna, è ispirata a realizzare un interesse su tutti, quella “concorrenza per il mercato” che informa di sé le vigenti direttive e che quindi le rende applicativamente più semplici e lineari. Questa impostazione trova oggi un possibile riscontro nel disegno di legge S.1804, assegnato alla 8ª Commissione permanente (Lavori pubblici, comunicazioni) del Senato.
Il secondo esempio di come per semplificare occorra operare scelte risolute è quello dell’edilizia. Anche questo ambito è oggetto di modifiche a opera della legge 120/2020, inserite soprattutto nell’art. 10. E anche in questo caso la tecnica utilizzata è quella della modifica “chirurgica” di parti di articoli o dell’introduzione di nuove norme nel corpo del testo unico dell’edilizia (il decreto del Presidente della Repubblica 6 giugno 2001, n. 380). Simmetricamente a quello delle pubbliche commesse, pure il settore della regolamentazione dell’attività edilizia dei privati richiede maggiore agilità e snellezza delle procedure. Esso necessita di chiarezza in ordine agli interventi che rientrano a pieno titolo nell’autonomia del proprietario, dunque non richiedono titoli abilitativi di sorta, al cospetto di quelli che invece richiedono una previa valutazione da parte degli (o la comunicazione agli) uffici tecnici comunali, così da permettere lo scrutinio della compatibilità degli stessi con gli interessi pubblici all’ordinato sviluppo dell’attività antropica sul territorio. In particolare, quella qui invocata è un’operazione di chiarezza volta ad abrogare l’istituto della comunicazione di inizio lavori asseverata ex art. 6-bis, d.p.r. 380/2001, e a sostituire il vigente art. 6 (recante «Attività edilizia libera») con una norma che si limiti a sancire che tutti gli interventi non subordinati a permesso di costruire (art. 10) e a segnalazione certificata di inizio di attività (art. 22) possono essere realizzati senza alcun titolo abilitativo. È indubbio che l’operazione qui auspicata necessariamente consegue alla più generale opzione volta a ridefinire lo spettro di poteri e facoltà del diritto di proprietà e del correlato ius aedificandi, ma sembra essere l’unica che in via potenziale può effettivamente semplificare il settore, eliminando eccessi di regolamentazione e procedimentalizzazione.
A monte, i due esempi di semplificazione su cui ci si è soffermati richiedono di operare opzioni “forti” che, bandendo i compromessi, mirino a realizzare un’effettiva semplificazione.
In altre parole, postulano il coraggio di semplificare.

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