Editoriale n. 2 2019

Governabilità: per un ritorno alla democrazia consociativa

di Marco Mazzamuto

Il sistema economico si fonda, tra l’altro, su un certo grado di certezza del quadro giuridico e politico.  Ciò comprende, ancor prima dei contenuti desiderabili delle politiche pubbliche, stabilità e capacità di governo. Questa esigenza tradizionale è stata, nei tempi recenti, ulteriormente alimentata dalla globalizzazione che esige risposte rapide alle pressioni dei mercati e degli attori internazionali.
L’avvento del sistema maggioritario intendeva appunto porre rimedio a questo ordine di problemi, ma l’esperienza di più di un ventennio è stata alquanto fallimentare, da un lato, non garantendo affatto la governabilità, anzi peggiorandone le performance rispetto alla Prima Repubblica, d’altro lato, facendo piombare il dibattito pubblico nella più grossolana demagogia, che tanto rievoca gli strali del pensiero classico nei confronti della democrazia, e senza dimenticare i possibili pericoli autoritari dei trasversali personalismi di coloro che, arrogandosi un quid pluris di legittimazione, ritengono di esprimere direttamente la volontà del popolo.
Quali sono le ragioni? Credo che abbiano concorso sia ragioni accidentali, sia ragioni strutturali, le quali ultime inducono a mettere in discussione l’idoneità dello stesso modello ad essere applicato nella realtà italiana.
Le ragioni accidentali sono da ascrivere a Tangentopoli, ma già capaci in sé di pregiudicare a lungo le sorti del sistema politico, poiché un qualsiasi sistema non può fare a meno dell’elemento umano. Al di là di ogni considerazione sul travalicamento o meno delle garanzie dello Stato di diritto, non vi è dubbio, sul piano storico-politico, che quella vicenda abbia arrecato uno straordinario danno al nostro sistema, azzerando una intera classe dirigente, ed una classe dirigente, pur non priva di magagne, di indiscusso spessore. Né a tale vulnus si è ancora posto rimedio, sia perché ricostruire ex novo una classe dirigente non è cosa facile e necessita di tempi lunghi, sia perché una siffatta ricomposizione è stata ostacolata dalle stesse derive personalistiche del maggioritario, con una spiccata propensione a mettere in campo autentici soldatini nel segno demagogico della coerenza e della fedeltà, come esclusivamente interpretate dal leader di turno.
Ma andiamo alle ragioni strutturali. Il sistema maggioritario, al di là delle tecniche utilizzate, mira all’obiettivo di far uscire dalle urne una parte vincitrice, che si assume stabilmente, per l’intera durata della legislatura, una piena responsabilità di governo, ed una o più parti perdenti, che si assumono specularmente la responsabilità dell’opposizione.
Una siffatta potenzialità tuttavia presuppone che si sia storicamente acquisito un elevato grado di coesione e di identità nazionale. Il perdente non vede nel vincitore un nemico, ma un amico, con idee diverse, di cui non si dubita l’intenzione di voler perseguire l’interesse della comunità.
Ma è proprio questo sentimento, se mai lo avrà, che manca alla Nazione italiana. In più di un secolo e mezzo si sono certo fatti dei passi avanti in questa direzione, ma, ai fini del nostro discorso, la misura di condivisione raggiunta appare tutt’oggi lontana dalla sufficienza, da quel mandato ottocentesco di Massimo D’Azeglio: “Fatta l’Italia, bisogna fare gli italiani”. Il nostro paese è ancora fortemente avvolto da un frazionamento identitario, localistico o a volte addirittura familistico, che induce al sospetto, al non fidarsi degli “altri” italiani.
Ciò fa meglio comprendere il fallimento del maggioritario. Ogni qual volta un qualsiasi leader ha preso sul serio l’idea di essere il “vincitore” e di poter dunque governare da sé, si è sempre scatenata la ribellione, anche all’interno delle stesse maggioranze, sulla base di un semplice istintivo assunto: se chi governa non ti coinvolge, vuol dire non che sta perseguendo l’interesse generale, bensì il solo interesse della propria parrocchia a scapito degli altri.
Il risultato è stato così esattamente l’opposto della governabilità. In questi ultimi decenni, il sistema politico, Invece di occuparsi a fondo delle questioni importanti per il futuro del nostro paese, ha perso una quantità enorme di tempo nelle schermaglie delle delegittimazioni reciproche.
Per quanto possa apparire paradossale, il tema della governabilità dovrebbe allora impostarsi in termini del tutto capovolti rispetto alla vulgata. Sin quando il popolo italiano continuerà a presentare il suddetto deficit identitario, il solo modo per governare il nostro paese, e nella misura in cui sia possibile governarlo, sarà e non potrà che essere, come lo è stato nella Prima Repubblica, la democrazia consociativa. A nostro modo, siamo come la Confederazione elvetica: occorre che tutti o quasi tutti si siedano al tavolo e, privi ciascuno verso l’altro di preventiva fiducia, tocchino con mano come San Tommaso ogni questione, soltanto allora potendo infine pervenire a vere decisioni di governo.
Ben venga dunque il ritorno fisiologico agli “inciuci”, in tutte le loro possibili combinazioni, e ad un proporzionale puro, al fine di ricostituire le trame sofisticate dell’arte del compromesso, come unica condizione per governare in una democrazia che può essere solo consociativa, recuperando altresì, in luogo delle urla demagogiche, il “garbo” del vero confronto politico, a quell’arte connaturato, di cui i vecchi democristiani erano maestri.

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