Editoriale n. 3 2019

Ambiente e Costituzione economica

di Francesco de Leonardis

L’ambiente è oggi indubbiamente un concetto che va di moda: si può dire che non vi sia giorno in cui manchi un accenno alle questioni ambientali nei mass media e nell’opinione pubblica di tutto il mondo.ù Allo stesso tempo l’ambiente è uno dei pochi temi che tendenzialmente unisce come dimostra il fatto, più unico che raro, che la Commissione bicamerale sul ciclo dei rifiuti che opera ormai da diverse legislature abbia sempre concluso i suoi lavori con l’unanimità dei propri componenti.
Eppure molto spesso la tutela dell’ambiente sotto il profilo giuridico viene considerata secondo schemi tradizionali e viene “relegata” sul piano del riparto di competenze o, al più, dei principi.
È indicativo di tale approccio il fatto che praticamente tutte le trattazioni di diritto dell’ambiente riferite al diritto nazionale abbiano inizio immancabilmente con un riferimento agli artt. 9 e 32 della Costituzione.
Com’è noto, infatti, il testo originario della nostra Costituzione non conteneva norme che prevedevano espressamente la tutela dell’ambiente, e grazie fondamentalmente alla giurisprudenza della Corte di Cassazione e della Corte Costituzionale, facendo perno sulla tutela del paesaggio contenuta nell’art. 9, e in quella della salute contenuta nell’art. 32, la tutela giuridica dell’ambiente si è andata materializzando.
Solo una ventina di anni fa, con la modifica del titolo V della Costituzione, si è introdotta, sebbene in modo indiretto e incompleto, la tutela dell’ambiente nell’art. 117, comma 2 lett. s) come materia sulla quale lo Stato ha una potestà legislativa esclusiva nonché nell’art. 117, comma 3 Cost. per il quale le Regioni hanno potestà legislativa concorrente sulla “valorizzazione dei beni culturali e ambientali”.
Come è stato efficacemente detto, (solo) nel 2001 l’ambiente è entrato finalmente a far parte delle “parole della Costituzione” o è stato inserito a pieno diritto nel “lessico costituzionale” ma pur sempre nella parte relativa al riparto delle competenze.
Quando si parla di tutela dell’ambiente nella Costituzione italiana, quindi, oggi si tende a menzionare esclusivamente “tre” norme inserite rispettivamente nella parte dei principi fondamentali, l’art. 9; nella parte prima “Diritti e doveri dei cittadini” – titolo secondo “Rapporti etico-sociali”, l’art. 32 Cost. e nella parte seconda “ordinamento della Repubblica” – titolo quinto “Regioni, province e Comuni”, l’art. 117 comma 2 lett. s) e comma 3 Cost.
De iure condendo i numerosi tentativi di “irrobustire” la presenza della tutela dell’ambiente della Costituzione si sono indirizzati ad inserire l’ambiente tra i principi fondamentali della Costituzione.
È un fatto però che, almeno fino ad oggi, nonostante si parli sempre più spesso di rapporti tra ambiente e mercato, non si riscontri nessun riferimento all’ambiente nel titolo secondo della parte prima sui rapporti economici: nelle letture tradizionali della cd. Costituzione economica del nostro paese non si evidenzia, del resto, alcun collegamento con l’ambiente.
In queste poche righe tenterò, allora, di fornire una suggestione, di proporre una nuova lettura alla Costituzione economica, di conformarla per così dire “ecologicamente”.
Tenterò di mettere in connessione la parte della Costituzione che riguarda il mercato, l’economia, lo sviluppo economico, quella appunto dei “rapporti economici”, con la tutela ambientale e, quindi, di interconnettere l’economia con il diritto anche sotto il profilo del diritto costituzionale.
Si tratta di rileggere in un’ottica nuova quell’art. 41 Cost. che costituisce la “chiave di volta” della cd. Costituzione economica del nostro Paese e che è stato definito di volta in volta come norma “di difficile interpretazione”, come “disarmonica”, “contraddittoria”, “di compromesso” e “anfibologica”.
I dilemmi della formula dell’art. 41 emergono chiaramente nei suoi tre commi.
Il primo comma stabilisce, infatti, che “l’iniziativa economica privata è libera” e in connessione con la consacrazione costituzionale della proprietà privata contenuta nell’art. 42 Cost., si potrebbe dire, rappresenta il trionfo dell’autonomia privata.
Il secondo comma per cui l’iniziativa economica privata “non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana” è quello che si potrebbe definire dei “limiti negativi all’autonomia privata” o della “relatività” della libertà di iniziativa privata o della “funzionalizzazione” dell’iniziativa privata.
Quest’ultimo, a sua volta, stabilisce che “ai fini di utilità generale la legge può riservare originariamente o trasferire, mediante espropriazione e salvo indennizzo, allo Stato, ad enti pubblici o a comunità di lavoratori o di utenti determinate imprese che si riferiscano a servizi pubblici essenziali o a fonti di energia o a situazioni di monopolio ed abbiano carattere di preminente interesse generale”.
Il combinato degli artt. 41, 3° comma e dell’art. 43 Cost. è quello che, almeno secondo una parte della dottrina, legittimerebbe l’intervento pubblico nell’economia e gli interventi di pianificazione e di programmazione.
Ed è proprio questo combinato tra gli articoli 41 ultimo comma e 43 Cost. che, secondo la prevalente dottrina di matrice liberale, sarebbe stato superato dal diritto europeo che, appunto, avrebbe consentito “il processo di emancipazione dallo schema dirigistico prefigurato dalla Costituzione”.
Ed infatti, per tali dottrine, grazie ai principi di concorrenza e di libera circolazione delle merci il nostro testo costituzionale sarebbe stato riscritto in modo da renderlo più simile alle Costituzioni ottocentesche (ossia a quei testi che si ispiravano alla concezione di Stato astensionista superando quella di Stato sociale) abrogando di fatto l’art. 41, 3° comma Cost.
Però, ed è qui la novità, dapprima in modo silenzioso attraverso i piani di azione, gli atti di diritto derivato e la giurisprudenza della Corte di Giustizia e poi, in modo conclamato, a partire dall’entrata in vigore dell’atto unico europeo del 1986 e ancora con il trattato di Maastricht del 1992, sul palcoscenico del diritto europeo è entrato in scena un nuovo protagonista: l’ambiente.
E tale protagonista ha iniziato a dominare la scena e a confrontarsi in modo sempre più spavaldo con i principi della libera circolazione delle merci e della concorrenza.
Tale confronto si potrebbe sintetizzare in tre tappe fondamentali: quella della red economy, quella della green economy e quella della blue economy.
La prima tappa è quella della red economy ossia dell’economia tradizionale che prende a prestito dalla natura, dall’umanità e dai beni comuni senza preoccuparsi di come ripagare il debito se non consegnandolo al futuro, e in cui i rifiuti sono considerati delle res derelictae: si tratta del momento iniziale che contraddistingueva l’ordinamento europeo prima che la tutela dell’ambiente assumesse giuridica rilevanza.
La seconda tappa è quella della green economy che è quella in cui l’ambiente assume giuridica rilevanza e nella quale conseguentemente si richiede alle imprese di investire di più e ai consumatori di spendere di più per preservare l’ambiente: si tratta però di una tappa in cui si guarda alla tutela dell’ambiente come ad un “costo”, certamente nobile, ma pur sempre un costo per le imprese e, quindi, lo si considera come un aggravio e un peso per l’economia.
Ecco allora la novità finale che si collega all’approvazione del pacchetto sull’economia circolare del 2018: si afferma la cd. blue economy che è, appunto, quella dell’economia circolare, che “affronta le problematiche della sostenibilità al di là della semplice conservazione e il cui scopo non è semplicemente quello di investire di più nella tutela dell’ambiente ma invece quello di spingersi verso la rigenerazione” e per la quale, in sintesi, l’ambiente si viene a caratterizzare come un vero e proprio driver dello sviluppo economico e istituzionale.
In quest’ultima prospettiva l’ambiente non viene più considerato semplicemente un costo ma, invece, un’opportunità di vero e proprio profitto per le imprese.
Il legislatore europeo attraverso il pacchetto sull’economia circolare, in sintesi, si spinge, ed è questa la dirompente novità, a incoraggiare, programmare, indirizzare lo sviluppo del sistema economico in una direzione “sostenibile” prefigurando un modello economico diverso dall’attuale: sembrerebbe ritornare, dunque, in primo piano la vecchia attività di “programmazione” anche se con limiti e su basi legittimanti diverse.
Ciò ovviamente attribuisce un nuovo ruolo all’intervento dei pubblici poteri e presenta numerosi aspetti positivi, di carattere sia economico (ad esempio l’ottimizzazione dell’uso delle risorse di materie prime), che ambientale (ad esempio la tutela dell’ambiente e la riduzione dell’inquinamento da rifiuti) e sociale (ad esempio il potenziale occupazionale socialmente inclusivo e lo sviluppo di legami sociali).
Si potrebbe dire che il diritto dell’economia circolare spinga a politiche positive, di miglioramento, di sviluppo mentre il tradizionale approccio del diritto ambientale era più di carattere negativo: da una legislazione che aveva come obiettivo quello di evitare i rifiuti, gli inquinamenti , le emissioni climalteranti, si passa ad una legislazione in cui si accentuano gli obiettivi positivi (promozione della produzione di beni che possano servire a fertilizzare, che possono sequestrare la CO2 etc.).
Ecco dunque la “rinascita” o “il risveglio”, nel nostro ordinamento nazionale, dell’art. 41, 3° comma, Cost. grazie appunto alla tutela ambientale e in particolare alla blue economy.
L’intero art. 41 Cost. nella prospettiva del diritto ambientale può essere, quindi, accostato alle tre definizioni di economia che si sono prima citate e che si sono succedute nel tempo, la red economy, la green economy e la blue economy.
L’art. 41, 1° comma esprime il concetto dell’economia red quella dell’usa e getta che conduce ad una produzione totalmente libera ma che non tiene conto di nulla se non di sé stessa (approccio individualistico): si tratta di un’iniziativa economica totalmente libera che non ha vincoli di nessun tipo.
L’art. 41, 2° comma nel dettare quello che è stato definito come il vincolo negativo all’attività economica esprime il concetto della green economy ossia di una produzione che debba avvenire nel rispetto dell’ambiente e che si può sintetizzare nella formula “produci ma non danneggiare l’ambiente” (approccio relazionale). In questo caso il concetto di “utilità sociale” viene ricollegato anche alla tutela dell’ambiente, come del resto la giurisprudenza della Corte Costituzionale in più occasioni ha già fatto in passato.
Qui la tutela dell’ambiente viene valorizzata ma viene vista ancora come un costo, come un vincolo negativo anche se emerge il concetto di qualcosa che trascende la mera produzione e che con essa deve essere messo in relazione.
 E, finalmente, l’art. 41, 3° comma nel dettare quello che è stato definito come il vincolo positivo all’attività economica può essere accostato alla cd. blue economy ossia la creazione di un sistema economico rispettoso dei dettami dell’economia circolare ossia di una tutela dell’ambiente che indirizza la produzione e che si può sintetizzare nella formula “produci in modo circolare” (approccio olistico).
La blue economy (melius il pacchetto sull’economia circolare che ne costituisce la sua base normativa) si potrebbe, dunque, porre come la causa di quella che si potrebbe definire come la “resurrezione” o la “rivincita” dell’art. 41, 3° comma Cost.: alla luce di tale lettura tale disposizione costituzionale ci dice che l’attività economica pubblica e privata deve essere indirizzata verso fini di natura sociale che vanno ovviamente estesi alla tutela dell’ambiente.
Mentre di fronte all’ambiente fino a pochi anni fa l’intervento pubblico entrava in gioco fondamentalmente come limite negativo (l’attività economica privata è libera ma non deve incidere negativamente sull’ambiente secondo il lemma “produci ma senza inquinare”), di recente, grazie al concetto di economia circolare, tende a (ri)configurarsi come un vero e proprio limite positivo: in altre parole, in nome della tutela dell’ambiente, il potere pubblico si spinge ad indicare al privato verso quali prodotti si deve orientare.
Ecco perché in altra sede ci si è spinti a ritenere che l’economia circolare, l’espressione è di per sé stessa indicativa, rappresenti il punto di contatto tra diritto amministrativo ed economia in materia di protezione dell’ambiente e ispiri un modello di intervento pubblico a salvaguardia ambientale definibile icasticamente come lo “Stato circolare”.
Del resto non vi è ordinamento più di quello europeo in cui si difenda la libertà delle imprese ma allo stesso tempo siano previsti piani e programmi e in cui la programmazione risponde ad esigenze di razionalità e di lungo periodo: basti pensare che il diritto europeo dell’ambiente si è sviluppato fondamentalmente, come si è accennato, grazie ai programmi di azione in materia ambientale che non sono altro che atti di programmazione che hanno come destinatari gli Stati.
In conclusione il nuovo pacchetto sull’economia circolare sembrerebbe consentire una lettura “rivitalizzante” dell’art. 41 Cost., e in particolare del suo 3° comma legittimando un nuovo ambito di “programmazione” o una “programmazione in senso ambientale dell’economia” o una “nuova politica industriale verde” ma nello stesso tempo, consacrando, e non potrebbe essere altrimenti la libertà di iniziativa economica (si tratta della consapevolezza che il mercato può contribuire efficacemente alla tutela dell’ambiente accanto agli strumenti tradizionali). Da oggi in poi, dunque, forse si potrà dire che l’ambiente è entrato a pieno titolo nella nuova Costituzione economica del nostro paese, anche se ancora in modo non esplicito, e alla luce di ciò andranno recuperati in nuova ottica istituti tradizionali come quello della programmazione o del potere unilaterale pubblicistico che forse nel tempo si erano un po’ appannati.

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