Editoriale n. 3 2018

di Francesco Manganaro

Alla fine del 2018, le analisi della SVIMEZ (Economia e società del Mezzogiorno) e del CENSIS (52° Rapporto sulla situazione sociale del Paese) concordano nel rilevare un netto peggioramento della coesione sociale nel nostro Paese con un pericoloso aumento del divario tra territori.
Sebbene nel 2017 l’economia italiana abbia segnato una lieve ripresa dell’1,5%, grazie alle esportazioni, il PIL delle Regioni del Mezzogiorno, dopo sette anni di recessione, rimane molto lontano sia rispetto a quello degli altri Paesi europei che a quello delle Regioni settentrionali, con una perdita del prodotto del 10% rispetto al 2007 a confronto del 4,1% perso dalle Regioni del Centro-nord.
A tale differenza ha contribuito la contrazione della spesa pubblica, ridotta, tra il 2008 e il 2017, di sette punti percentuali nel Mezzogiorno ed invece cresciuta dello 0,5% nel resto del Paese. Più in generale, la spesa pubblica complessiva consolidata delle amministrazioni centrali e locali è più bassa nel Mezzogiorno con  6.886 euro per abitante nel 2016 contro i 7.629 euro del Centro-Nord.
Il tasso di occupazione è ancora due punti al di sotto del 2008 nelle Regioni meridionali (44,3% nel 2018, era 46% nel 2008) mentre ha recuperato i livelli del 2008 nel Centro-nord (65,9%). Si assiste così all’accelerazione del fenomeno migratorio interno: 145 mila persone sono emigrate dalle regioni meridionali nel biennio 2016-17 ed il 25,6 % degli studenti meridionali studia in un Ateneo del Centro-nord.
I dati smentiscono anche la leggenda metropolitana di un eccesso di lavoratori nelle pubbliche amministrazioni del Mezzogiorno. L’ultimo censimento ISTAT del 2015 dimostra che il rapporto tra dipendenti pubblici e popolazione residente è molto diminuito soprattutto nel Mezzogiorno, che rispetto al 2001 ha 214 mila unità in meno. La diminuzione è anche in valori percentuali rispetto alla popolazione: i valori più elevati si hanno nel Centro (5%) e nel Nord-Est (4,9), con il Mezzogiorno a 4,7% di dipendenti pubblici ogni 100 abitanti.
È consolidata nella letteratura economica l’opinione che il superamento del divario tra Nord e Sud del Paese comporti vantaggi reciproci. L’utilizzazione adeguata dei Fondi europei ed il trasferimento di know how nel sistema produttivo meridionale implica – non sembri un paradosso – vantaggi competitivi per l’industria settentrionale, che ha nei consumatori del Mezzogiorno un primario mercato. Inoltre, il risparmio meridionale è impiegato per finanziare investimenti meno rischiosi e più redditizi nel Centro-nord. Infine, l’emigrazione di giovani meridionali in formazione o con elevate competenze già maturate alimenta l’accumulazione di capitale umano nelle regioni settentrionali.
I dati SVIMEZ vengono ulteriormente confermati dal Dossier del CENSIS, che sottolinea la differenza tra territori e la marginalità di alcuni di essi. Sono infatti “ai margini del margine” tutti i 1.842 Comuni periferici del nostro Paese, ma tra di essi si segnalano quelli del Mezzogiorno, con una popolazione residente che arriva al 15,7% mentre è del 2,6% nei comuni periferici del Nord-ovest.
È in questo panorama che si prospettano eventuali modificazioni delle funzioni attribuite alle Regioni ed agli enti territoriali. È un dato consolidato che la crisi economica iniziata nel 2007 abbia comportato una politica di restrizioni economiche a danno degli enti territoriali che hanno subito – a differenza delle amministrazioni centrali – tutti gli effetti negativi della spending review (C. Cottarelli, La lista della spesa, 2016).
La crisi ha toccato soprattutto gli enti locali: i Comuni non sono in grado di realizzare opere e servizi nonostante l’art. 118 Cost. ne riconosca la vicinanza ai cittadini; le Province vivono nell’incertezza di vivere o morire dopo la legge Delrio; le città metropolitane stentano a sviluppare le loro potenzialità sia per un’originaria difficoltà normativa della loro costituzione che per la scarsità di risorse.
Il riassetto dei territori con il superamento della frammentazione dei piccoli comuni (ridotti da 8.101 a 7.919 per autonome iniziative di accorpamento) e la costituzione di aree vaste per i servizi di ambito più ampio non sono nell’agenda politica, benché i servizi ai cittadini siano l’oggetto specifico delle istituzioni territoriali.
In tale contesto si prospetta ora un inedito scontro istituzionale tra alcune Regioni settentrionali ed alcune Regioni del Mezzogiorno in ordine alla opportunità ed alle modalità di costituzione di un regionalismo differenziato, secondo quanto previsto dall’art. 116 della Costituzione.
Nota a questo proposito il rapporto SVIMEZ che un ulteriore colpo alla coesione sociale potrebbe venire proprio dalle proposte delle Regioni Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna di ottenere nuove forme e condizioni particolari di autonomia per un lungo elenco di materie concorrenti di cui al comma 3 dell’art. 117 (tra le quali la sanità), nonché alcune materie di legislazione esclusiva dello Stato (tra le quali le norme generali sull’istruzione, secondo la richiesta della Regione Veneto).
Senza pregiudizievoli opinioni contrarie, la ripartizione delle risorse è la vera cartina di tornasole su cui misurare se il regionalismo differenziato pregiudichi la coesione sociale. Perciò – nota ancora il rapporto SVIMEZ, “ci sembra che la richiesta specifica della Regione Veneto di finanziare le funzioni aggiuntive con il 90%  del gettito riscosso nel proprio territorio delle imposte erariali (IRPEF, IRES e IVA) vada in tutto un altro senso e rifletta l’aspirazione di affidare, attraverso la funzione residuale, programmi di spesa che mirino alla permanenza nei propri territori di parte delle entrate erariali che nella situazione vigente sono utilizzate dallo Stato per finalità perequative”.
Si ripropone ora una questione già sollevata a seguito dell’emanazione della l. 42/2009 sul c.d. federalismo fiscale in ordine alla ripartizione delle risorse tra centro e periferia al fine di una eventuale redistribuzione perequativa.
Il regionalismo differenziato – dal punto di vista giuridico – sarà oggetto delle decisioni della Corte costituzionale, già chiamata in causa dai ricorsi di alcune Regioni meridionali.
Analizzando la vicenda dal punto di vista della coesione sociale, i conflitti tra territori rischiano di accrescere quel “cattivismo sociale”, segnalato nel rapporto CENSIS, che alimenta nel nostro Paese sentimenti di ostilità per tutte le possibili diversità, aumentando – per la crisi economica ancora in atto – sentimenti egoistici che riversano sugli “altri” le proprie frustrazioni. In questo senso, secondo Censis, si spiegano vari fenomeni sociali: dalla “cattiveria” delle comunicazioni sui social, fino all’ostilità nei confronti di tutte le diversità sociali, degli immigrati e finanche delle politiche europee considerate ostili verso il nostro Paese.
Si è perciò sviluppato in questi tempi un dibattito sulla responsabilità delle c.d. élites sociali nei confronti dello sviluppo del Paese. Per gli operatori culturali, per chi insegna nelle Università per chi cura una rivista giuridica, raccontare i fatti, approfondire i concetti, educare al rispetto reciproco costituiscono modi di servizio al bene comune e – si auspica – un contributo alla crescita solidale del Paese in un complesso panorama europeo e mondiale.

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